III

DAL FOSCOLO AL GIOBERTI

Nella Notizia intorno a Didimo Chierico il Foscolo scriveva, a proposito delle opinioni letterarie di quel personaggio autobiografico:

Aveva non so quali controversie con l’Ariosto, ma le ventilava da sé; e un giorno, mostrandomi dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l’Oceano rompea sulla spiaggia, esclamò: cosí vien poetando l’Ariosto[1]!

Rapida e poetica immagine di una poesia ricca di spontanea ispirazione, fluente e inesauribile, ed insieme accenno ad un giudizio non privo di riserve. Ed infatti, quando nel Saggio sui poemi narrativi e romanzeschi italiani (Opere, X) il Foscolo fece un vero e proprio esame critico del Furioso, tali riserve[2] si fecero chiaramente sentire, ma piú forte insieme si sviluppò e si precisò l’impressione della ricchezza fantastica dell’Ariosto. La limitazione di carattere moralistico, assai blanda, deve essere del resto spiegata in relazione al particolare valore che la verecondia, il pudore avevano assunto nell’animo e nella poetica foscoliana, specie nel periodo delle Grazie, quando il Foscolo poteva ammonire le fanciulle a non toccare il Decameron (II inno, vv. 436-441), avvivando dall’intimo il gusto verecondo del «caloscagatós» neoclassico («Noi siamo liberi di professare o non professare una morale piú pura di quella de’ nostri maggiori, ma è cosa manifestissima che il gusto moderno è piú verecondo»[3]).

Mentre l’impressione di disordine è frutto di pregiudizio tradizionale ravvivato dall’amore neoclassico per il «lucidus ordo»:

Nel Furioso la tela avviluppasi di soverchio e la memoria può appena giovarci nel tener dietro a tante complicazioni sino alla fine [...]. I cavalieri si urtano l’uno coll’altro, e appunto quando chi legge si fa piú sollecito d’ascoltare il seguito de’ loro casi, e piú curioso di saperne la fine, il poeta interrompe ad un tratto e svagasi altrove [...][4].

Parole in cui ritorna l’impazienza dell’Alfieri che, nella Vita (Epoca II, cap. 1), giustifica l’abbandono della lettura dell’Ariosto in collegio per «quella continua spezzatura delle storie ariostesche che nel meglio del fatto ti pianta lí con un palmo di naso, cosa che me ne dispiace anche adesso, perché contraria al vero, e distruggitrice dell’effetto prodotto innanzi».

Ma subito un piú vivo senso di poesia porta il Foscolo al centro di una potente apertura del problema critico dell’Orlando:

Pur tali osservazioni (la troppo varietà, l’abbandono troppo prematuro dei personaggi principali come Angelica) non montano, poiché ci avvediamo di aver ragione, e nondimeno intendiamo che il poeta non crede bene di dover far caso delle nostre ragioni. Egli inebria la fantasia, vuole che quanto a sé piace piaccia anco a noi, che solo vediamo ciò ch’egli vede. Palazzi aerei – Fate – l’anello che rende invisibile chi lo tiene – la lancia d’oro,

ch’al fiero scontro abbatte ogni giostrante,

– il cavallo alato – la salita alla luna e tante altre strane finzioni che negli altri poeti ci divertono e insieme ci muovono a compassione sulla credulità della moltitudine, vengono tutte rappresentate dall’Ariosto come se fossero creazioni fantastiche veramente della natura. Che se vi pensiamo alcun poco, non possiamo loro dar fede; pure, mentre leggiamo, è appena possibile di soffermarci a pensare. L’Ariosto ci padroneggia ognor piú tra per la sospensione nella quale ci tiene una serie tanto variata di casi, e per la confusione che questi producono nella memoria. Nell’istante medesimo che la narrazione di un’avventura ci scorre innanzi come un torrente, questo diventa secco ad un tratto, e subito dopo udiamo il mormorio di ruscelli di cui avevamo smarrito il corso, desiderando pur sempre di tornare a trovarlo. Le loro acque si mischiano, poi tornano a dividersi, poi si precipitano in direzione diversa; talché il lettore rimansi piacevolmente perplesso al pari del pescatore, che attonito all’armonia de’ mille stromenti che suonano nell’isola di Circe, pende le reti [...][5].

Ed ecco che, attraverso una piú diretta ed attenta considerazione della speciale dimensione del mondo ariostesco, il pregiudizio è sostanzialmente superato e quella precisazione felice («come se fossero creazioni fantastiche veramente della natura») può diventare (appoggiata alla poetica del «naturale meraviglioso» viva nelle Grazie e alla ripresa generale delle intuizioni contiane su di un piano critico piú sicuro e in un momento storico piú propizio ad una vera valorizzazione di questo accordo creativo) la base di una linea critica che giunge attraverso il Romanticismo fino alle formule piú vive del Novecento[6]. Cosí nel suo approfondimento del mondo ariostesco anche la stessa «spezzatura degli episodi» si trasforma in causa di sottile piacere e quella forza poetica sempre viva, latente ed esplicita, viene rilevata, nel procedere del saggio, in una frase piena di simpatia e di ammirazione: «talvolta ei sonnecchia finché non abbia ricoverato le forze; indi sfavilla con tutta la vivezza di prima»[7].

E, se accedeva al rimprovero alfieriano della cortigianeria, sapeva sentire la nobiltà e la concretezza umana dell’Ariosto, esagerando poi nella ricerca dei caratteri dei personaggi:

Nel tratteggiare i suoi personaggi l’Ariosto ebbe piú fantasia romanzesca di tutti quelli che scrissero prima di lui; ma le sue esagerazioni della umana natura conservano sempre tanta eroica dignità, tanto vigore e tanta coerenza, che siamo costretti a credervi come se fossero veramente possibili. Infinita è la varietà dei caratteri, e pur quando assomigliansi molto fra loro nella persona, per esempio di Rodomonte e di Mandricardo, vengono essi distinti da qualità cosí prominenti, che quasi possiamo prevedere che cosa faranno tutte le volte che riappariscono sulla scena. La parte drammatica dell’Orlando Furioso (se ne tolghiamo i soliloqui amorosi) ci pare sovente superiore a quella di ogni altro poema antico e moderno, compresa l’Iliade stessa[8].

Dove si può avvertire una forzatura del carattere prevalentemente narrativo-lirico del poema verso un interesse piú drammatico-psicologico certamente funzionale e non dominante, secondo una inclinazione comune a gran parte dei critici romantici, mentre poi di fronte alla tipica indagine romantica circa l’ironia ariostesca (momento essenziale nello svolgimento del problema critico dal Romanticismo tedesco al De Sanctis) il saggio foscoliano rimane su posizioni piú settecentesche: con il vantaggio però di insistere sull’adesione sincera del poeta ad un mondo di nobiltà e di vitalità amato e partecipato, che verrà spesso messo in sordina e persino misconosciuto nelle accentuazioni eccessive di interpretazioni sociologiche e ideologiche e nel deteriore ritratto di un Ariosto schernitore e scettico.

Tutto teso a sentire il poema nella sua vita realizzata piú che nel suo significato storico a cui piú guarderanno i romantici (limite e forza della loro indagine), il Foscolo fu attento anche al valore stilistico del poema, e la sua elaborazione, negli estremi della prima e della terza edizione, fu per lui lezione artistica e causa di meraviglia per quella perfezione che, nell’apparenza della facilità, cela una complessità di ricerche dai piú non sospettata:

Può darsi che fra le altre intellettuali sue facoltà una ne possedesse che era come crogiuolo per fondere e per affinare i modi di cui aveva mestieri. Oltre le dizioni legittimate dall’esempio dei classici italiani, non isdegnava espressioni trovate nella oscura e volgare poesia, faceva uso de’ latinismi e de’ lombardismi, che gli pareva che meglio porgessero le sue idee. Pure quel suo genio vivace riveste di un solo colore elementi di varia natura; colloca le parole dove appariscono piú efficaci, dove suonano meglio, e le fonde in una lingua novella, copiosa e nobile a un tempo, vigorosa e corretta. Cosí la lingua dell’Ariosto soddisfa egualmente il lettore che cerca solo di divertirsi al racconto, e quello che è in grado di apprezzare le piú fine bellezze della dizione poetica. Soltanto dopo la terza e dopo la quarta lettura del Furioso ci accorgiamo le piú alte bellezze della poesia ariostesca non essere tali che colpiscano di primo tratto[9].

Qualità che, sull’autorità del Reynolds, lo induce a paragonare l’apparente facilità dell’Ariosto alla limpidezza apparentemente insipida dell’arte di Raffaello[10].

Le osservazioni del Foscolo, cosí importanti per la complessità e l’autorità del discorso critico in cui erano presentate, sono tutt’altro che isolate e, nei comuni spunti settecenteschi, si trovano accompagnate, agli inizi del secolo, da osservazioni e motivi omogenei e concorrenti a rafforzare l’impressione di maturità del problema critico ariostesco in questo periodo. Cosí ad esempio, leggendo le pagine di Giovan Battista Corniani nei suoi Secoli della letteratura italiana[11], si ritrovano, nella comune ascendenza contiana[12], motivi vicini a quelli foscoliani in una presentazione critica naturalmente meno efficace e meno complessa: come soprattutto l’insistenza sull’incontro di meraviglioso e di verosimile:

Credo di poter affermare con verità che tra i poeti antichi e moderni nessuno al pari di lui abbia saputo sí perfettamente congiungere il maraviglioso col verisimile. Qual maniera di maraviglie non presenta il Furioso? Imprese di valore sorprendente, vicende di guerra e di amore, felici, tragiche, affettuose, terribili; giganti, maghe, negromanti, palagi e boschi incantati, armi ammaliate, arpie, cavalli volanti, il paradiso terrestre, l’inferno, il mondo della luna ecc.: ed orna ciò con colori tratti dal vero della natura che rimuovon la ripugnanza alla credibilità e formano una compiuta illusione[13].

«Pochi lo pareggiano certamente nella valenza di corredare di circostanze della maggiore naturalità ed evidenza i piú favolosi avvenimenti»[14], nel «rendere credibile l’incredibile».

Ed altri esempi di una critica legata ancora agli spunti settecenteschi nello sviluppo di un moderato e generico romanticismo, e (intorno al maggior rilievo foscoliano) tutta permeata da un amore duplice e confuso per la confidenza ed evidenza ariostesca come capacità di rappresentazione sempre viva e piacevole e come vita di una poesia sempre concreta, mai ragionativa o puramente descrittiva, e per la sua libertà fantastica come gioiosa e lieta agevolezza e come potente e geniale creatività (per cui l’ammirazione quasi sorridente del Settecento si trasforma in considerazione profonda di una genialità senza limiti e senza leggi), si possono trovare in Francesco Torti[15] o nel Sismondi, caratteristico epitomatore e mediatore di idee settecentesche e romantiche ma non senza influenza, in tale funzione, rispetto alla critica del pieno Romanticismo. Il primo nel suo Prospetto del Parnaso Italiano indica bene la disposizione romantica ad allargare il gusto settecentesco della «varietà», a sentire il mondo dell’Orlando nella sua movimentata grandiosità, nella sua positiva libertà fantastica come un autentico valore creativo, e certe sue frasi sul poeta che crea come la natura («il suo genio fecondo e creatore, quasi librato al di sopra dell’universo, sembra presiedere a tutti i moti, come a tutte le passioni degli uomini, e nella sua vasta immaginazione animando ed abbracciando un immenso circolo di cose, egli guida, per cosí dire, la natura per mano»[16]), del viaggiatore sedentario tutto liberato in fantasia («Egli ha tutto veduto coll’occhio del genio: egli ha descritto una prodigiosa quantità di fenomeni fisici e morali, i di cui originali non si sono giammai presentati alla sua vista. Si è detto che Omero non sarebbe stato il pittore della natura, se non avesse viaggiato la metà della sua vita. Ciò potrà esser vero, ma l’autore del Furioso, che in linea di colorito merita almeno di essere paragonato ad Omero, non è stato viaggiatore e ci somministra un grand’esempio di quanto è capace l’immaginazione concretata in se stessa»[17]), sono davvero rivelatrici di una fresca lettura e di quel vivace contatto con il testo ariostesco che è proprio del Torti, ma che è anche frutto di un’attenzione generale diffusa e rinnovata. Quanto al Sismondi, nel suo De la littérature du Midi de l’Europe[18], alle riprese dalla critica settecentesca e da spunti di romantici tedeschi[19], brillantemente presentate e precisate tanto da dar loro un rilievo piú nitido e una vita piú efficace e duratura (notevolissima quella dal passo citato dell’Andrés, seguito anche nell’esempio della parlata di Olimpia e della morte di Zerbino, e rilevato in un’importante distinzione tra la profonda vita sentimentale del poeta e l’ipotetica forza e coerenza dei personaggi[20]), anche se il Sismondi accentua soprattutto il «difetto» dei caratteri[21], si alternano descrizioni animate in cui si formano premesse di giudizi piú stringenti, come nel caso di questa bella pagina romantica e della formula desanctisiana del disinteresse e dell’arte per l’arte:

Ce monde essentiellement poétique, oú tous les intérêts vulgaires de la vie sont suspendus, oú l’amour et l’honneur donnent seuls des lois, sont les seuls mobiles des actions; oú aucun besoin factice, aucun calcul ne refroidit l’âme: oú toutes les peines, toutes les inquiétudes qui tiennent à la vanité, à l’inégalité des rangs, à celle des richesses, sont oubliées; ce monde factice soulage assez agréablement du monde réel: on se plaît à y voyager pour se distraire complètement des soucis qu’on éprouve ailleurs. On n’y apprend rien; car la différence de la vie chevaleresque à la vie réelle est telle, qu’on ne peut jamais faire à l’une la moindre application des leçons puisées dans l’autre: c’est un caractère remarquable de ce genre de poésie, qu’il est impossible d’en tirer aucune espèce d’instruction. Mais on trouve peut-être quelque jouissance à une occupation d’esprit qui ne prétend point être une leçon, et la rêverie sans but est plus conforme à l’essence de la poésie, qui ne doit jamais être un moyen mais qui est à elle-même son propre objet[22].

E Francesco Salfi riprendeva l’impressione del maraviglioso e del credibile sempre sul piano romantico dell’illusione[23]:

In mezzo a queste tre principali azioni che il poeta conduce insieme, e quasi sempre di fronte, in mezzo ad un numero straordinario d’incidenti episodici che le accompagnano sino alla fine, la prima cosa che ci deve maravigliare si è l’arte tanto piú prodigiosa, perché essa par naturale, di farli nascere, di interromperli, di riprenderli e di svilupparli vicendevolmente. Quantunque tutto sia straordinario e maraviglioso, tutto sembra presentarsi e disporsi da sé medesimo. Ciò che da principio non era che l’effetto di un’invenzione fantastica, perde il suo carattere a misura che il poeta rappresenta e descrive. Egli dà tanto movimento e tanta vivacità alle sue creazioni, che sembra egli medesimo convinto della verità del suo racconto e finisce col far credere ciò che pareva da prima incredibile. Diviene anche penoso il pensiero che, quel che ci ha cosí vivamente interessati, sia privo di realtà[24].

Il Salfi sentiva evidentemente la difficoltà di una naturalezza per semplice grazia, contrastante con la testimoniata profondità della elaborazione ariostesca, e integrava con piú decisa attenzione al costruire ariostesco:

Che non si creda nulladimeno che tutto quello che egli ha compiuto, se gli presentasse senza nessuna fatica; lo studio ed il lavoro che gli costava il comporre era anzi straordinario [...]. Ciascuna delle sue invenzioni le piú facili di apparenza era stato il soggetto di lunghe meditazioni[25].

Egli risentiva d’altra parte direttamente, oltre che dell’intuizione contiana diffusa e precisata soprattutto dal Foscolo, anche delle indicazioni del saggista francese la cui Histoire littéraire d’Italie egli aveva continuato con cosí notevoli risultati[26]: il Ginguéné. Questi, riprendendo dal Settecento e dal Voltaire la constatazione della familiarità e confidenza, dello spirito scherzoso e senza punte eccessive («ce ton de demi-plaisanterie que l’Arioste possède si bien»[27]), della spontaneità e della evidenza («ce qu’il décrit, on croit le voir. Il ne cherche rien, tout vient à lui, tout est à ses main»), aveva cercato – con una larghezza di analisi espositiva che, su altro piano critico, ritroveremo solo nel saggio novecentesco del Momigliano – di adeguare e far rivivere il poema nelle sue avventure e nei suoi temi sinfonici, di far sentire l’unità-varietà del Furioso[28], ed aveva offerto all’inizio del secolo una fresca lettura, in cui soprattutto veniva rilevata (frutto dell’amore settecentesco, ma insieme del nuovo senso romantico della originalità) la singolare forza di assimilazione e trasformazione della fantasia ariostesca nei riguardi dei suoi «precursori». E si poneva nuovamente il problema delle «fonti» anticipando, se pur in maniera rapida e semplice, le obbiezioni che saran fatte dal Cesareo al Rajna[29]:

On voit qu’il fut loin d’être l’inventeur de ce genre oú il excelle; que la route lui était tracée; que les fonds de la plupart de ses fables étaient trouvés, que les formes mêmes qui paraîtraient le plus lui appartenir étaient employées avant lui, mais que tout cela existait en quelque sorte sans vivre, et que le génie de l’Arioste fut pour cette masse encore inerte le souffle créateur ou le flambeau de Prométhée [...][30].

Poco seppero dire sull’Ariosto i romantici «ufficiali» italiani, che in genere si accontentarono di riecheggiare e far propria la considerazione dei romantici stranieri i quali avevano visto nel Furioso un esemplare di opera romantica[31] e la realizzazione dell’ideale di una poesia geniale e senza regole[32]. E cosí il Di Breme chiamava l’Ariosto «lussureggiante romantico»[33] e in tale funzione la sua posizione accanto a Dante diviene quasi di prammatica[34], mentre nella «romanticomachia»[35] anche i classicisti, ribellandosi a quella che consideravano un’usurpazione, rivendicavano alla propria tradizione l’Ariosto e finivano per esaltarne tanto piú la figura sia pure insistendo sul suo classicismo e sulla sua fedeltà ad essenziali regole artistiche[36].

L’impulso piú nuovo ed importante al problema critico del Furioso in epoca romantica viene soprattutto dall’Idealismo tedesco e, mentre piú superficialmente la Staël si attarda ad indicare (del resto in una parlata lirica della Corinne[37]) la spontanea letizia ariostesca, tutta naturale e legata alla gioia del Rinascimento, l’Idealismo germanico viene approfondendo il motivo dell’ironia. Questo, apparso piú vagamente nelle pagine del Voltaire come senso di superiorità del poeta sul suo mondo sentimentale e come lieta comicità libera e spregiudicata, assume ora un carattere piú preciso e profondo, in relazione ad una interpretazione storico-filosofica del Rinascimento, che solleva il problema del Furioso al di là di semplici «letture» e di giudizi prevalentemente formalistici (ma spesso nati da un’aderenza al testo poetico che mancherà a molti critici-filosofi del periodo romantico, facendosi di nuovo sentire davvero nelle pagine del Gioberti e soprattutto in quelle desanctisiane) e lo lega saldamente ad un’esigenza storica che la critica moderna non poté piú ignorare: anche se, nelle sue formulazioni schematiche e sociologiche, essa era tutt’altro che esente dal rischio di interpretazioni tendenziose, di forzature programmatiche, di cui si può avvertire poi l’appesantimento e la ripresa deteriore, priva del grande respiro storico del Romanticismo, nel periodo positivistico.

L’esigenza storica si era fatta sentire debolmente negli accenni di Friedrich von Schlegel, che nella XI lezione della sua Geschichte der alten und neuen Literatur[38] aveva paragonato Ariosto e Camoes con svantaggio del nostro, perché non «poeta nazionale»[39], ma fu soprattutto Hegel ad imprimere questa nuova direzione storica, che costituisce indubbiamente la spina dorsale degli studi ariosteschi fino al De Sanctis ed agli epigoni romantici nel secondo Ottocento.

Nell’Estetica il Furioso viene rapidamente e vigorosamente presentato nel passaggio dal Medioevo al Rinascimento e, se anche ritornano accentuazioni errate («matte situazioni») e se la stessa interpretazione centrale è, come dicevo, pericolosa per la sua tendenziosità e inaccettabile tout court (madre di tutto il formulismo storico-filosofico romantico), d’altra parte esso avvia ad un approfondimento del problema critico ariostesco, essenziale di fronte alle posizioni piú complete e sicure del Gioberti e del De Sanctis: momento da superare, ma ineliminabile nella sua esigenza storica generale e come ricerca nuova rispetto alle letture del Settecento e a quelle stesse analisi critiche del primo Ottocento piú vicine al testo, ma in generale piú formalistiche, e che nella sintesi desanctisiana saranno utilizzate intorno a tentativi piú profondi di interpretazione totale sinché riaffioreranno a volte con maggior forza nella nuova coscienza critica del Novecento. La «dissoluzione della cavalleria» nella nuova coscienza rinascimentale diventa il motivo storico che accomuna in fasi successive Ariosto, Cervantes e Shakespeare e che, nel suo particolare momento «ironico», sostiene una ricostruzione generale del poema che rende comica la cavalleria ed insieme sa esaltare la nobiltà e generosità insita «nel senso cavalleresco»:

Tale dissoluzione della cavalleria in se stessa trovasi precipuamente in Ariosto e Cervantes: è poi rappresentata convenientemente e portata in coscienza della sua specialità d’individuali caratteri da Shakespeare. In Ariosto dilettano specialmente gl’infiniti sviluppi del destino e degli scopi, il novellare intrecciando fantastiche relazioni e matte situazioni, nelle quali il poeta protrae l’avventura fino alla leggerezza. Non sono che vere stoltezze e pazzie, le quali però sono dagli eroi prese sul serio. È rimarchevole come l’amore vi decada spesso fino a sensuali oscene storie e risibili collisioni, dopo l’amor celeste di Dante e l’amor delicatamente fantastico di Petrarca; mentre l’eroismo e la bravura sembra spinta ad un estremo, in cui non piú risveglia una credula meraviglia, ma soltanto un sorriso sul favoloso de’ fatti. Però nella indifferenza in riguardo al modo e guisa onde le situazioni vengono ad aver luogo, onde maravigliose ramificazioni e conflitti si presentano, cominciano, s’interrompono, s’intrecciano di nuovo, si spezzano e finalmente si dissolvono sorprendentemente, cosí come nel trattar comicamente la cavalleria, Ariosto sa assicurare e rilevare il nobile e il grande che sta nel senso cavalleresco, nel coraggio, nell’amore, nell’onore e nella bravura, ed insieme sa tratteggiare maestralmente passioni diverse, astuzie, abilità, presenze di spirito ed altre cose ordinarie[40].

Non occorrerà insistere ancora sui limiti e gli intrinseci pericoli di una simile posizione, né occorrerà osservare come ovviamente un simile punto di vista fosse suscettibile di varie e contrastanti formule a seconda delle ideologie e delle interpretazioni piú o meno tendenziose del Rinascimento, piegando l’autentica poesia ariostesca a seconda delle tesi e delle loro sfumature positive o negative, ma (a parte che tale pericolo è da superarsi accettandolo e correggendolo internamente con una coscienza storica sempre piú approfondita e ricca e con una coerente coscienza del valore poetico nei suoi caratteri peculiari, il che è frutto di un pensiero storico ed estetico piú maturo) bisogna considerare appunto il valore funzionale di tale momento critico. Momento che spinge ad interpretare il poema ariostesco nei suoi motivi centrali e nella sua nascita storica eliminando una semplice lettura di gusto impressionistico (che se risorgerà, porterà con sé un limite maggiore almeno di inquadramento storico) e disperdendo i pregiudizi di un esame retorico su di un piano contenutistico piú rozzo che ancora in pieno Ottocento trovò piena espressione nell’angusto giudizio del Cantú[41].

Naturalmente la posizione hegeliana, tipica di un periodo della cultura idealistica romantica, ha un suo valore storico e un suo chiarissimo limite ed il compito di una storia della critica ariostesca consiste proprio nel mostrarli ambedue e unificare su questa direzione le varie posizioni romantiche che direttamente o indirettamente ne conseguono, accentuandone il limite di formulazione a tesi o utilizzandone l’indicazione storica in sede piú schiettamente critica. È su questa direzione infatti che si possono raccogliere le interpretazioni del Quinet, del Ferrari, come quelle di riflesso del Settembrini e dell’Emiliani Giudici[42], e su questa direzione, con diversa ricchezza di sensibilità estetica e di capacità critica, si pongono anche le vivissime pagine giobertiane e il grande saggio del De Sanctis[43].

Nel vigoroso affresco delle Révolutions d’Italie (1855), nel capitolo sulla borghesia e la cavalleria, il Furioso è visto non tanto nel generale movimento europeo, quanto piú precisamente (sia pure su di uno sfondo che non manca mai ai romantici e che li accomuna, al pari dello studio dei poeti in funzione di storie non specificamente letterarie, e nell’afflato generico e generoso di svolgimenti ampi e rappresentativi) in quello nazionale italiano, nella crisi italiana del Rinascimento (precisazione di interesse e di ambito che si trova ugualmente nel Ferrari, nel Gioberti, e naturalmente nel De Sanctis), nei confronti della quale il Furioso rappresenterebbe la rivincita nell’ironia e la consolazione sorridente («la suprema scienza del sorriso nell’agonia»):

Il mago supremo, che colla sua bacchetta, ha saputo addormentare sotto l’albero delle fate quel popolo flagellato è l’Ariosto [...]. Egli non ha affascinato soltanto il popolo nella schiavitú, ma l’ha vendicato con l’ironia perché beffando in Carlo Magno il Cesare feudale e il Sacro Romano Impero, lacerava ridendo il trattato di servitú che lega da secoli e secoli il mezzogiorno al Nord[44].

Ma lo scherno e il sorriso hanno un piano superiore di svolgimento in cui agiscono lo spirito «cosmopolita del Cinquecento» (motivo che avvicina Quinet a Gioberti[45]) e l’amore per una bellezza perfetta e irraggiungibile, per cui la stessa pazzia d’Orlando «pare velo di una specie di delirio permanente nello spirito di quel gran secolo che tormentato, ossessionato da un solo pensiero, dimentica tutti gli altri e confonde delitti, virtú, verità, menzogne, soddisfatto e sorridente purché raggiunga la bellezza sovrana». Ed ecco cosí presentarsi piú lucidamente e con una sfumatura originalmente romantica di tormento, di tensione, il motivo del panestetismo rinascimentale che troverà la sua valorizzazione maggiore nel De Sanctis e nella sua formula dell’arte per l’arte.

Ugualmente in un quadro della storia italiana, Giuseppe Ferrari nella Storia delle rivoluzioni d’Italia[46] prende l’Ariosto insieme al Machiavelli («L’Ariosto in azione»!) come espressione caratteristica dell’Italia decaduta e scettica nel suo sorriso e nella sua evasione fantastica, in cui il medioevo è «deriso e ammirato, schernito e divinizzato senza satira e senza credulità, colla facilità dell’improvvisazione che crea un’epoca eterna»: «tutto è bello, ma tutto è fantastico». Il Furioso è lo specchio di quel tempo intelligente, innamorato della bellezza e incapace di sdegno e di passione. Solita deformazione della intima serietà e del poema e del suo tempo; ma in quella frase sul «medioevo deriso e ammirato» c’è una ripresa felice di una frase hegeliana, anche se qui poco sviluppata e sommersa dal brillante quadro, e nella rapida descrizione del poema c’è pure un interessante accenno estetico («tutte le scene dell’Ariosto si svolgono coi contorni e coll’evidenza lucida dell’arte italiana; nulla di vaporoso, di indeciso, nessuna nube, nessuna incertezza in quell’atmosfera inalterabilmente serena»[47]) che sintetizza bene un’impressione tradizionale, come spesso avviene in questa critica, che nei suoi abbozzi funzionali, oltre all’interesse dell’esigenza storica comunque attuata, non manca incidentalmente di illuminazioni improvvise e felici anche nell’ordine di una considerazione piú direttamente letteraria ed artistica.

Ed in fine, romanticamente atteggiato nello sviluppo di una storia ideale della nazione italiana e riecheggiante gli spunti hegeliani in un discorso pieno e maturo, ricco di fermenti e di spiegate intuizioni, il problema del Furioso viene ripreso (e ne parliamo, anche se cronologicamente precede gli scritti del Quinet e del Ferrari, come conclusione ideale di questo capitolo e come punto piú alto ed importante di questa fase della critica predesanctisiana) dal Gioberti nel suo Primato morale e civile degli italiani (1843). Anche il Gioberti (nelle cui pagine non mancano giudizi erronei e concessioni alla sua particolare posizione morale e religiosa, come il biasimo per «i trascorsi contro i costumi e la religione», e la definizione dell’equilibrio spirituale ariostesco alla luce di una polemica antiprotestante: «era uomo di un cervello troppo robusto e italiano per lasciarsi adescare alla misticità boreale e splenetica dei primi protestanti»[48]) studia il poema in funzione di uno schema, di una tesi (ma tale è, come abbiamo visto, la natura degli studi ariosteschi in questo periodo, e ciò che in seguito potrà divenire unicamente macchinosa deformazione è qui stimolo necessario anche se pericoloso ad un’indagine a cui Gioberti come Hegel e Quinet non si sarebbero certo altrimenti applicati): la tesi di un affievolirsi e scomparire dell’«Idea» nell’epoca rinascimentale, la tesi secondo cui «la poesia italiana dall’età di Dante a quella dell’Ariosto non crebbe ma andò declinando».

Ma nell’impeto (e nel suo linguaggio vigorosamente enfatico e ieratico che pur si fa in queste pagine capace di finezze stilistiche corrispondenti ad un sincero entusiasmo, ad un godimento nuovo e diretto) di una tesi neoguelfa cosí discutibile e tendenziosa, nella strettoia limitatrice e stimolante di linee sovrimposte alla vera natura ariostesca, il Gioberti sa costruire un vero e proprio saggio ariostesco pieno di motivi, in parte vivi anche nel De Sanctis, in parte suscettibili tuttora di sviluppi fecondi nella critica piú moderna.

Nella stessa contrapposizione troppo calcata di Dante e Ariosto, l’osservazione del senso della concretezza di quest’ultimo («il poeta della fisica» di fronte a Dante «poeta della metafisica») e della sua libertà fantastica, della sua mancanza di «finalità», conduce ad una impressione suggestiva e profonda del poema, tutto vivo in un’esperienza della vita immediata e sicura, e poeticamente libero in un viaggio fantastico in un tempo e in uno spazio naturali e poetici in cui l’Ariosto è tirato come ogni gran fantasia dall’istinto «cosmopolitico» e in cui la massima precisione si mescola alla creazione di luoghi completamente immaginari, «sí che introduce quell’arcana perplessità di contorni, che tanto garba all’immaginazione, quando entra nel mondo ignoto o poco conosciuto»[49].

Paesaggio soprareale e pur familiare, fatto di misure diverse, ma tutte rapportate a proporzioni intime come il suo tempo è fantastico e pure riferito al ritmo piú usuale, in cui si svolge la vita libera ed errabonda della cavalleria non messa in satira né esaltata come istituzione, quanto idoleggiata come senso del vivere libero, eroico e fantastico:

Qual è il filo, che unisce tal moltitudine svariatissima di miti, di fatti, di paesi, di tempi, di prodigi, di uomini, di popoli e d’instituzioni, e la riduce ad armonia, nel divino poeta? Questo principio unificativo è la cavalleria, intendendo per tal nome, non tanto la milizia religiosa, che nacque nel medio evo dal genio germanico e dal genio cattolico pelasgico insieme confederati, quanto universalmente quel tipo ideale di vivere eroico, che si verifica piú o meno nei secoli tramezzati fra una barbarie efferata e una gentilezza che incomincia e costituenti l’adolescenza dei popoli armigeri [...]. La vita cavalleresca è sommamente bella, sia perché in essa la libertà individuale è sciolta da ogni legge positiva ed estrinseca, e ha il perfetto dominio di sé medesimi, e perché l’individuo per coraggio e virtú d’animo, forza di muscoli e maestria d’armi sul comune degli uomini si leva e grandeggia[50].

Lo schema ideale viene di fatto superato e il lettore delle pagine giobertiane si trova di fronte ad una presentazione critica del poema in cui intuizioni formatesi dal Settecento in poi (e precisamente in parte nel saggio foscoliano, in parte circolanti nell’ambiente culturale romantico dopo Hegel e Schlegel) assumono un rilievo originale e potente, si articolano piú decisamente in giudizio critico, in interpretazione centrale appoggiata ad una lettura appassionata, ad un contatto diretto e sensibile, anche se tradotto naturalmente in vigorose impressioni sommarie.

Il mondo poetico ariostesco è attinto nelle sue dimensioni speciali (distrutte le vecchie esitazioni sulle incoerenze e sul disordine, sulla «strana cosmografia» secondo l’espressione del secentesco Nisiely) e il motivo romantico della ironia sulla cavalleria diviene piú chiaramente un motivo di unificazione del poema: ironia e amore della cavalleria sono uniti

perché questi elementi rampollavano da un oggetto unico, cioè dal tipo cavalleresco ridevole in quanto manca di condegno scopo, bello e attrattivo in quanto abbonda di forza, di spirito, ed è sprigionato dalla prosaica realtà della vita odierna sí che nasce quella fusione intima dei due componenti, quella armonia e lucidità di concetti, quella fluttuazione dilettevole fra la gravità ed il riso, che si risolve per chi legge in un’impressione di gioia pacata e sorridente, per chi scrive in un’ironia dolce, arguta, sarcastica, leggiadramente maliziosa[51].

Cosí il tema dell’ironia e dell’amore per la cavalleria diventava motivo unitario e si ricollegava a quella impressione unitaria di naturalezza e fantasia che il Gioberti aveva avvertito cosí bene nella «geografia» ariostesca, e che, sulla scorta di intuizioni ormai affermate, ritrovava esplicitamente nell’«accozzamento del naturale con lo strano e con l’impossibile»[52].

Dal Foscolo al Gioberti attraverso l’approfondimento storico di Hegel e del Romanticismo idealistico, il problema critico ariostesco si è arricchito ed allargato e nelle formulazioni romantiche ha trovato una piú sicura base di interpretazione storica anche se a rischio di deformazioni tendenziose e di asservimento a storie dell’Idea, della Nazione ecc., in cui poteva andar disperso quel contatto con il testo poetico, quella considerazione dell’opera artistica nella sua peculiarità che era stata caratteristica di critici meno «filosofi» come alcuni settecenteschi o il Foscolo. Fu il De Sanctis che riportò dalla critica romantica in un terreno piú specificamente estetico il problema ariostesco e lo sistemò in una costruzione suggestiva e ricca, che solo nel Novecento rivelò davvero i suoi limiti e le sue intime difficoltà e poté essere utilmente discussa per nuove formulazioni critiche.


1 Cfr. Opere, ed. nazionale, vol. V, Prose varie d’arte, a cura di M. Fubini, Firenze, Le Monnier, 1951, p. 181.

2 Rileva, soprattutto, le «controversie» il Donadoni in Ugo Foscolo, Palermo, Sandron, 19272, pp. 381-382.

3 Cfr. Opere, ed. nazionale, vol. X, Saggi e discorsi critici, a cura di C. Foligno, Firenze, Le Monnier, 1953, p. 140. Non mancava dunque in lui la coscienza di una diversa sensibilità di costume, che ispirava anche ad un elogiatore dell’Ariosto questa scusa di «buon senso» di fronte agli aspri rimproveri che nel Settecento furon spesso piú che altro effetto di prudenza conformistica: «È proprio (dirò cosí) un peccato, che le sue poesie e particolarmente il Furioso, non possano leggersi tutte da tutti senza pregiudizi dell’onestà. Se cosí fosse a’ suoi tempi, credo di no; come non è di scandalo a certi indiani la nudità, che lo sarebbe agli europei» (G.A. Barotti, Memorie istoriche di letterati ferraresi, Ferrara, Stamperia Camerale, 1777, vol. II, p. 175).

4 Opere, vol. X cit., p. 182.

5 Ivi, vol. X, pp. 183-184.

6 Anche Giuseppe De Robertis, prendendo spunto dal mio volume ariostesco, ha insistito recentemente sull’importanza delle intuizioni foscoliane e sul loro valore stimolante per una lettura moderna del poema (Idea dell’Orlando, «Nuovo Corriere», 9 dicembre 1948).

7 Opere, vol. X cit., p. 187.

8 Ivi, vol. X, pp. 195-196.

9 Ivi, vol. X, pp. 200-201.

10 Il paragone fra Ariosto e Raffaello fu ripreso e svolto ai tempi nostri da S. Ortolani in un saggio finissimo anche se inevitabilmente poco conclusivo: Pensieri su Raffaello, «Vita artistica», 1927.

11 Erano usciti nel 1796 a Bassano col titolo I primi quattro secoli della letteratura italiana. L’edizione completa (da cui cito) uscí a Brescia presso Bettoni dal 1804 al 1813.

12 Non solo Conti, ma (come del resto nel Foscolo) anche Gravina, di cui il Corniani riecheggia il motivo dell’esperienza concreta dell’Ariosto contrapposta a quella libresca del Tasso (I primi quattro secoli della letteratura italiana cit., vol. I, p. 312).

13 Ivi, vol. I, p. 311.

14 Ivi, vol. I, p. 312.

15 La prima ed. è del 1808, ma io cito da quella di Firenze, 1828.

16 Prospetto del Parnaso Italiano cit., vol. I, p. 159.

17 Ivi, vol. I, p. 146.

18 De la littérature du Midi de l’Europe, Paris, Treuttel et Wirtz, 1813, vol. II, pp. 72-74.

19 Queste riprese, spesso anche troppo fedeli come nel caso dell’Andrés, sono state notate da E. Alpino nel suo saggio Il Sismondi storico della letteratura italiana, Milano, Leonardo, 1944.

20 Ritengo tale distinzione essenziale per la critica del Furioso e rimando al mio Metodo e poesia di Ludovico Ariosto cit., e al mio commento sansoniano, e, a proposito di questo motivo, alle recensioni di E. Bonora al mio commento (in «Leonardo», 1942) e al mio libro (in «Belfagor», 30 novembre 1948). Sui personaggi del Furioso come «figure», non «caratteri», sono decisive alcune pagine del saggio del Croce (Ariosto, nuova ed., Bari, Laterza, 1927, pp. 75-76). Giuseppe De Robertis, parlando di alcune dichiarazioni di Cesare Pavese sul suo metodo di lavoro e sulla sua indifferenza al «personaggio» come primo centro della costruzione narrativa, commenta: «[...] e mi verrebbe voglia di nominare Ariosto, aggiuntavi la maraviglia» (in «Nuovo Corriere», 12 luglio 1951).

21 «Il faut convenir cependant que le talent dramatique de l’Arioste n’égale pas son talent pittoresque, et qu’il a bien plus l’art d’inventer des événements, que des caractères [...]. C’est encore une conséquence du même défaut, sans doute, qui ôte à tous les personnages de l’Arioste une physionomie individuelle; même le héros qui donne son nom au poëme, Roland, n’est pas très différent de Renaud, son cousin, de Roger, de Griffon, ou des plus braves chevaliers sarrasins» (De la littérature du Midi de l’Europe cit., vol. II, p. 74).

22 Ivi, vol. II, pp. 68-69.

23 Manuale della storia della letteratura italiana, Milano, Silvestri, 1834.

24 Ivi, pp. 179-180.

25 Ivi, p. 183.

26 Sul Salfi e sui suoi rapporti con l’opera del Ginguéné si veda C. Nardi, La vita e le opere di F.S. Salfi, Genova, Libr. Ed. Moderna, 1925.

27 Tono che invece il neoclassico Delille aveva deformato in prodigio bizzarro di «goût et folie». Su Delille e Ariosto cfr. P. Ronzy, Jacques Delille et l’Arioste, «Ausonia», 1938.

28 Insistendo però troppo contenutisticamente sulla figura di Ruggiero come centro del poema, ciò che gli fu rimproverato dal Sismondi.

29 Indicò bene questo punto il Natali a p. 487 del saggio citato alla nota 5 della Premessa.

30 Histoire littéraire d’Italie, Paris, Michaud, 1812, vol. IV, p. 378. Le altre citazioni sono alle pp. 475-476.

31 Cosí nell’«Antologia», dicembre 1825, Enrico Mayer riporta un articolo di Goethe del ’18 sulla lotta fra classici e romantici in cui questa frase («Or è facile comprendere come i tedeschi si facciano le meraviglie di ciò che gli italiani rigettano, il romanticismo, mentre anzi li riconoscono in questo genere come loro maestri, venerando qual capolavoro l’Orlando Furioso») autorizzava quanto nello stesso anno sul «Conciliatore» affermava Ermes Visconti: «Dante, l’Ariosto e lo Shakespeare sono romantici» («Il Conciliatore», a cura di V. Branca, Firenze, Le Monnier, 1928, vol. I, p. 407).

32 Cosí il Berchet ricorda l’Ariosto per l’amore professatogli dal Bouterweek (Opere, Bari, Laterza, 1912, vol. II, p. 75) e nel riassunto critico della sua Geschichte der Poesie und der Beredsamkeit ne riporta l’esaltazione con Dante e Petrarca come poeti che «piú che alle regole si lasciarono andare alla prepotenza del loro genio, al bisogno delle anime loro, e riescirono grandi nella libertà» (p. 96). «Il Conciliatore» (gennaio 1819) ripeteva: «I romantici della nostra età non calpestano l’eredità dei maggiori, ma producono come esemplari i poemi di Dante, l’Ariosto e il Canzoniere del Petrarca, tutti lavorati senza rispetto al codice di Aristotele».

33 In Discussioni e polemiche sul romanticismo, a cura di E. Bellorini, Bari, Laterza, 1943, vol. I, p. 43.

34 F. Lomonaco (Opere, Lugano, s.e., 1831, vol. VII, p. 247) aveva già considerato l’Ariosto il maggior poeta italiano insieme a Dante, e si ricordi del resto la posizione di assoluto predominio accordatagli prima dal Baretti.

35 A proposito di casi simili di scambi e di identificazione di posizione nella «battaglia romantica» si veda il mio saggio omonimo in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951.

36 «Né i romantici potranno in Italia mostrare un grande poeta che abbia adottato i loro principi, giacché quella pretensione di mettere nel loro numero Dante e l’Ariosto troveremo fra poco quanto sia malfondata» (Paride Zaiotti, «Biblioteca italiana», XIII, I semestre, 1819, p. 157). Si veda anche Discussioni e polemiche, I, p. 239.

37 «Notre air serein, notre climat riant ont inspiré l’Arioste. C’est l’arc-en-ciel qui parut après nos longues guerres: brillant et varié comme ce messager de beau temps, il semble se jouer familièrement avec la vie, et sa gaieté légère et douce est le sourire de la nature, et non pas l’ironie de l’homme» (Corinne, ch. III, in Œuvres, Paris, Treuttel et Wirtz, 1838, vol. I, p. 667).

38 Nella traduzione dell’Ambrosoli (Milano, Società Tipografica dei Classici Italiani, 1828) gli accenni all’Ariosto si trovano alle pagine 86-90.

39 August Wilhelm Schlegel aveva criticato le commedie ariostesche perché poco legate al loro tempo ed incapaci di «lasciare alcuna dipintura di costume in cui sia verità e vita» (Corso di letteratura drammatica, trad. it. di G. Gherardini, Milano, s.e., 1844, p. 153), al contrario del Ginguéné che le aveva esaltate come piene di vita e di comicità.

40 G.W.F. Hegel, Estetica, trad. it. di A. Novelli, Napoli, Rossi Romano, 1863-64, vol. II, p. 320.

41 Nella sua Storia della letteratura italiana (Firenze, Le Monnier, 1865), che esprime le esigenze di un deteriore nazionalismo cattolico, il Cantú aveva criticato l’Ariosto come corruttore ed insincero. «Dagli scherzi dell’Ariosto, che travolge le idee di virtú, che divinizza la forza, che fa delirare il raziocinio, che imbelletta il vizio e seconda gli istinti voluttuosi, forse la patria trasse piú mali ch’ella stessa nol sospetti» (p. 224). «Poemi e ogni altro libro in tanto sono lodevoli in quanto porgono un concetto utile e grande: sparpaglia il sentimento e ne avrai impressione diversa, che, come i circoli dell’acqua percossa con una pietra, l’uno cancella l’altro, nessuno rimane. Ora l’Ariosto, mancante sempre del vero pregio d’un’epopea, la sincerità, ridente di sé, del soggetto, de’ lettori, diresti siasi proposto distruggere i sentimenti man mano che li suscita. Ti vede atterrito? eccoti una scena d’amore. Commosso? ti fa il solletico: devoto? ti lancia una lascivia [...]. E celiasse solo degli uomini; ma non la perdona alle cose sante; mette in beffa Dio, facendogli dare puerili comandi [...]» (p. 219). Il De Sanctis nel suo saggio Una storia della letteratura italiana di Cesare Cantú (1865, ora in Opere, a cura di N. Cortese, Napoli, Morano, 1930, vol. X, pp. 240-261) dimostrò con estrema acutezza e severità l’assurdo di quella posizione di un critico che ha «ottuso il senso estetico» e che non riesce a capire le condizioni storiche in cui il poema è nato, avvicinandosi a quello con i pregiudizi del proprio tempo e con quelli della vecchia retorica classicistica. Molto piú onesto il Burckhardt che, pur sentendo il Furioso discordante dagli ideali poetici ed etici del suo tempo, riconosceva l’importanza, la storicità e la bellezza del poema (Die Kultur der Renaissance in Italien, Stuttgart-Berlin-Leipzig, Deutsche Verlags Anstalt, 1930).

42 Per altre interpretazioni minori dell’Ottocento e del Novecento si veda l’articolo di Laura Bertuzzi Chiarini, in «Convivium», 1933.

43 Questa interpretazione in funzione di una storia piú generale, che utilizza la generale visione dialettica della storia in osservazioni piú direttamente rivolte ad un esame estetico, si riflette verso la metà del secolo anche in scrittori di tendenza diversa e, nel vasto angolo di variazioni sul motivo dell’ironia, del giuoco come dissoluzione della cavalleria e del medioevo, si possono ritrovare osservazioni di uno scrittore come il purista Vito Fornari (Dell’arte del dire, Napoli, s.e., 1859, vol. IV, p. 167): «Qui farò attendere alla splendida spigliatezza, al vezzo, all’ingegno, all’amabilità ed all’intima ingenuità, con cui la poesia dell’Ariosto, muovendosi in mezzo agli scopi poetici del medioevo, celatamente a furia di folli incredibilità fa che il lato fantastico si dissolva in se stesso per via di uno scherzo; mentre il romanzo piú profondo del Cervantes ha già alle spalle la cavalleria con un passato»; o come Saverio Baldacchini che nel saggio Del fine immediato d’ogni poesia (1835, riportato in Purismo e romanticismo, a cura di E. Cione, Bari, Laterza, 1936, pp. 23-27) insiste sull’incontro di grave e giocoso contro la riduzione del poema ad una pura burla, facendo dell’ironia una specie di storica conseguenza del dissolvimento del mondo medioevale cavalleresco e un mezzo consapevole del poeta per «conciliarsi l’opinione dei lettori, che piú volentieri per tal modo lo seguono nei sublimi voli, ai quali rado è che la fantasia degli uomini siesi levata» (p. 25).

44 Cito dalla traduzione italiana di C. Muscetta, Bari, Laterza, 1935, pp. 128-130.

45 Non insisterò sulla ripresa di questa e di altre formulazioni nella critica posteriore (ad esempio il Settembrini riprenderà dal Quinet l’idea del valore ideale del contrasto fra Oriente e Occidente: cfr. Lezioni di letteratura italiana, Napoli, Morano, 1870, vol. II, p. 71, in cui ritorna persino, trasformato romanticamente, il giudizio voltairiano a proposito del «sorriso ariostesco» come forza dell’intelligenza che si leva sul mondo e lo «padroneggia scherzando», p. 64), perché in questo breve profilo mi preme rilevare il succedersi di posizioni critiche piú che il minuto passaggio di particolari motivi da critico a critico.

46 Cito dalla prima traduzione italiana (Milano, Ferrari, 1870). La prima edizione in francese è del 1856-58.

47 Ivi, p. 409.

48 V. Gioberti, Opere, ed. nazionale, Milano, Fratelli Bocca, 1939, vol. II, p. 154. Ma ad ogni modo la posizione del Gioberti è ben diversamente aperta e comprensiva nei confronti dell’Ariosto (come di fronte al Foscolo) che non quella di altri scrittori cattolici come il Cantú e lo stesso Manzoni.

49 Ivi, vol. II, p. 145.

50 Ivi, vol. II, pp. 146-147.

51 Ivi, vol. II, p. 151.

52 Ivi, vol. II, p. 152.